Le monete longobarde


I Longobardi non conoscevano le monete ma al loro arrivo in italia si adattarono
al sistema romano-bizantino.


Oscuro più di altre zone è il rapporto tra economia naturale ed economia monetaria in
quelle regioni le quali sono comunemente ritenute come le più importanti per lo sviluppo
storico dell' Alto Medioevo,e prima di tutto la Francia. Gli storici antichi e recenti sono quasi
sempre dominati dall'idea che i barbari germanici, nel periodo delle invasioni, preparassero
la fine dell'economia monetaria del basso impero e che invece l'economia naturale, corrispondente alla loro civiltà primitiva, fosse poi introdotta negli stati da loro fondati.*

In Italia i Longobardi arrivarono nel 568, anno cruciale per la storia della penisola italica!
Erano una popolazione germanica impegnata da anni in una migrazione e invasero l'Italia
sotto la guida di Alboino, trovando un paese stremato dopo venti anni di guerre tra Goti
e Bizantini, le quali avevano lasciato questi ultimi padroni della penisola.

I Longobardi conquistarono prima Cividale, in Fiuli, denominata allora Foreum Iulii e ne fecero la loro prima capitale; ci resta un bellissimo tempietto longobardo a testimonianza del loro passaggio.

Fu poi la volta di Aquileia ed in seguito Vicenza, Verona, Brescia, Milano ed infine Ticinum/Pavia,
la quale diventò la loro vera capitale; quasi tutte le più importanti città del Nord caddero nelle
loro mani, e ci costituì così il neonato regno indipendente longobardo.L'avanzata proseguì verso
gli Appennini e poi verso il sud Italia, sottraendo di continuo territori in possesso dell'Impero Bizantino, oramai troppo indebolito e impegnato militarmente su altri fronti.
Colonizzato un territorio lo organizzavano in un ducato sotto la guida di un Duca.
Alla morte del sovrano Alboino, fatto assassinare dalla celebre moglie Rosamunda ebbe inizio l'età del 36 Duchi durante i quali i ducati cercarono di amministrarsi autonomamente fino a quando non si decise di eleggere un nuovo Re. Il prescelto fu Autari e da lui partì una progressiva centralizzazione del potere.

Dal punto di vista archeologico non sono molte le testimonianze ma spiccano quelle legate alla metallurgia, campo nel quale i Longobardi si dimostrarono particolarmente abili. Splendidi corredi di armi si trovano nelle loro necropoli

I Longobardi non conoscevano monete metalliche ma al loro arrivo in Italia si inserirono nel sistema bizantino usando prima il circolante romano/bizantino per poi battere delle imitazioni e coniare tipi propri alla metà del secolo VII, prima con una fase di monetazione anonima sino a re Ariperto 652-661 che coniò la prima moneta d‘oro con il proprio nome. I tremissi di Liutprando, tremisse scodellato di Pavia, mm 1,22,entro cerchio lineare busto diademato volto verso destra, nel campo a destra lettera T, nel giro DNLIVT PRAN RX , IN BASSO sul manto lettera A senza trattino orizzontale, entro doppio cerchio lineare l’Arcangelo Michele con scudo tiene un asta sulla destra, nel giro SCSMI HAIL. anche se oggi rari, presentano un grande numero di coppie di conii per cui si può ragionevolmente presumere sia sta abbondante la quantità di esemplari battuti.

Sui tremissi la presenza di lettere sia dinanzi al volto del re sia sul mantello regale ha fatto ipotizzare agli studiosi che tali lettere fossero le iniziali dei magistrati preposti alla coniazione. Lo studioso principale delle monete longobarde, il Bernareggi, indica potrebbe trattarsi delle iniziali di pubblici ufficiali quali duchi o gastaldi, sovraintendenti delle zecche sparse in varie località del regno. Tali ipotesi devono ancora essere confermate perché sinora non si ha notizia di funzionari con attributi di magistrati monetari.
Si esclude l’accentramento delle coniazioni solo in Pavia

In tutti i tremissi, unico tipo in oro coniato da Liutprando e da quasi tutti i successori lo stile è
poco raffinato senza uniformità di titolo sceso sino a 0.600 o peso variante da 0.74 a 1.81,
che era quello dei tremissi bizantini.
Nei 76 esemplari esaminati dal Bernareggi il peso più frequente è di 1,23 grammi pari esattamente a 19 grani troy. Il grano troy inglese era esattamente quello di un grano d’orzo, ovvero 0,0648 grammi, il peso minimo che si potesse misurare con precisione all’epoca, come dimostrato da pesi rinvenuti in tombe altomedioevali. Pertanto la monetazione longobarda avrebbe avuto un proprio e originale sistema pondometrico di origine germanica imposto dagli strumenti di pesatura a disposizione degli zecchieri.

Riguardo ai Longobardi si potrebbe pensare che la moneta argentea avesse svolto il ruolo di moneta quotidiana: oltre alle monete che imitavano le emissioni di Ravenna soprattutto di Giustiniano e di Giustino esiste una seconda emissione argentea, assente a Cividale, che si pensa possa essersi sviluppata nel VII secolo d.c. Si tratta di monete realizzate con tondelli molto sottili portanti profilo imperiale e monogrammi o croce potenziata o il busto frontale di San Michele o ancora una corona al rovescio che contiene una croce o una mezzaluna. Le più note e discuesse sono le silique attribuite a Pertarito 672-688 ispirate nella tipologia ai denari franchi coevi e presentano il monogramma PER a volte accompagnato da un busto sulla faccia principale. Per queste emissioni coniate forse sul peso della cosidetta siliqua bizantina e frazioni (specialmente quarti e ottavi) non si è ancora individuato con certezza il rapporto col tremisse aureo. Si trattò cmq di una monetazione probabilmente autonoma da quella di imitazione dei tipi bizantini poichè i nomi delle autorità che firmarono le monete erano re o duchi o loro delegati. A parte queste monete argentee è un dato evidente che i Longobardi non coniarono moneta di bronzo, quella da sempre destinata alla circolazione quotidiana. Arslan ha assegnato loro alcune serie di minimi bronzei.

La constatazione non è nuova e ha impegnato in passato numerosi autori (vedi Passera) che hanno proposto soluzioni differenti. Cordero di San Quintino 1834 indicò come moneta quotidiana longobarda soprattutto gli argenti di Pertarito e forse Liutprando ma ipotizzò che potessero essere longobardi anche alcuni minuti esemplari di rame di difficile datazione che portavano una croce in corona. Il supposto ruolo quotidinao della moneta argentea trovò d'accordo anche Promis 1857 e Brambilla 1883 che però ritenendone insufficiente la produzione, ipotizzarono che i Longobardi usassero anche monete bizantine. Wroth non escluse che alcune monete bronzee ritenute vandale o gote siano state invece emissioni di zecca longobarda. Monneret de Villard 1919 sostenne invece che fosse possibile ipotizzare il frazionamento della moneta aurea per creare delle unità minori più adatte a rappresentare una moneta spicciola. Grierson 1954 avanzò varie possibilità, che si continuasse ad usare monete romane, che coniassero monete in argeno o rame, che negli scambi si usasse metallo valutandolo a peso sino ad usare moneta naturale. Lo studioso premise che alcune possibilità potessero non solo coesistere ma essere integrate l'un l'altra a seconda dell'esigenza del momento. Bognetti ammise che certo non si poteva ammettere un uso giornaliero dei tremissi d'oro ma anche le monete d'argento erano così rare che nemmeno per l'argento si poteva ipotizzare l'uso nel commercio di ogni giorno. Egli ritenne possibile anche che si fosse scelto di usare negli scambi dei beni di consumo quotidiano dal valore noto e condiviso che erano però rapportati alla moneta aurea effettivamente coniata.
Roberto Lopez osservò che in effetti già dal V secolo si rinvenivano ripostigli monetari che contenevano anche monete bronzee "vecchi di decenni e persino di secoli", imitazioni, berrette metalliche e lingotti in metallo e ritenne più ragionevole che si fossero usate le vechie monete enee di ostrogoti e romani poichè per lo Stato longobardo era ecnomicamente conveniente mantenere in circolazione le vecchie monete piuttosto che coniarne di proprie.
Il medioevo numismatico si annunciava fin dal III secolo ma non cominciò veramente sino all'invasione longobarda.
Bernareggi accettò la tesi già proposta dal de Villard secondo cui nel mondo longobardo per i pagamenti di picocla entità si fosse soliti utilizzare moneta aurea frazionata e ricordò la pratica testimoniata presso i Longobardi di frantumare oggetti preziosi per suddividerne il valore. Tale usanza sembrò confermata da alcuni ripostigli monetari in cui erano presenti degli spicchi di tremisse: Ilanz (Jecklin 1906, Berghaus 2000) e Mezzomerico (Ruggero 1908, Bernareggi 1983).
Ermanno Arslan ha riconosciuto ai nominali argentei un ruolo fondamentale poichè seconda la ricostruzione dello studioso prima i Goti e poi i Longobardi per sopperire al ruolo della moneta divisionale promossero una produzione di monete d'argento con una articolazione di valori sempre più piccola; a partire dall'unita argentea sarebbero state introdotte le frazioni da 1/4 e 1/8 e forse anche 1/16 con una valore di cambio per le monete da 1/8 a 60 nummi e 1/16 a 30 nummi ella moneta argentea riprende la tesi da O'hara. Arslan attribuisce ai Longobardi anche alune monete di bronzo di infimo valore che sarebbero scomparse rapidamente entro la metà del VI secolo per essere sostituite da nominali argentei come circolante minuto; ha suggerito inoltre che si potessero usare tondelli non coniati o, in ambito locale, materiali monetari più antichi.

Osservando poi la oggettiva penetrazione della moneta bizantina in terriotorio longobardo testimoniata soprattutto dal ritrovamento di folles enei come a Cividale, Arslan ha ipotizzato che la moneta bronzea bizantina possa aver costituito circolante alternativo alle emissioni argentee locali. Secondo questa ricostruzione la monetazione longobarda si inserirebbe nel solco della preesistente monetazione ostrogota in cui altri metalli (argento e bronzo) avrebbero assunto un ruolo altrettanto importante rispetto alla moneta d'oro, differenziandosi da altri stati barbarici con monetazione monometallica.

Pare quindi di poter affermare che gli studiosi odierni concordino con molte delle intuizioni avanzate dagli studiosi della seconda metà del XX secolo: a fronte della coniazione di una moneta aurea dall'alto potere di acquisto si dovettero utilizzare varie forme di transazione compresi certo beni in natura e metalli a peso.

 

Il soldo d’oro è moneta effettiva bizantina ed è imitato dai popoli invasori dell’impero romano d’occidente. Questo soldo d’oro scade a un modesto triens, ovvero 1/3 di solido bizantino,
ma a basso contenuto aureo. 

Il soldo e il tremisse merovingi erano andati costantemente peggiorando, contenevano cioè
sempre meno oro e sempre più lega in metallo vile, la loro circolazione era limitata e servivano
più come simbolo di prestigio regale: ovviamente nessuno avrebbe accettato di scambiare
un vero solido bizantino con uno merovingio o con tre tremissi merovingi.

 

- Denier, church of Reims (670-696) di 1,26 gr - Denier, bishopric of Paris (725-750) di 1,04 gr

Con Astolfo, comunque, il nome del re si impose su tutte le emissioni rendendo dunque esplicitamente regie anche le emissioni toscane che, peraltro, doveva essere state tali
già in precedenza, malgrado l’appariente autonomia suggerita dall’originale iconografia.

La monetazione di Desiderio, l’ultimo re, è senza dubbio la più compiutamente regia
di tutta la serie: infatti, unificò due diversi filoni della monetazione longobarda.

Il primo fu introdotto da Cuniperto tra il 688 e il 700 e in seguito adottato anche da
Liutprando mentre il secondo è rappresentato dalle emissioni della Tuscia (Etruria) dove
la produzione iniziò a partire dal 700 circa, con rari tremissi caratterizzati dalla presenza,
al diritto, del monogramma di Lucca, e proseguendo con i più noti e diffusi stellati.

Fu proprio il tipo dello stellato ad essere adottato da Desiderio sia per le emissioni delle
officine monetarie toscane sia per quelle settentrionali. La sola eccezione è rappresentata
da un tremisse, recante al rovescio la figura del san Michele, rinvenuto in un ripostiglio
a Novara.****

L’azione riformatrice di Desiderio non si limita agli aspetti iconografici. Il re sembra infatti
mettere in atto una vera e propria riorganizzazione della produzione monetaria. La novità
fu il consistente aumento delle zecche nell’Italia settentrionale.****

Quindi nel momento in cui i Longobardi entrarono in Italia conobbero una organizzazione fiscale che decisero di mantenere. Quando però la naturale inflazione dei valori di conto, certamente determinata anche dal continuo rapportarsi con il parallelo sistema monetario bizantino, richiese adattamenti della moneta, i tremissi longobardi dovettero essere rivalutati e furono coniati con un bordo più largo per rappresentare il valore accresciuto. Ma questo adattamento dovette riguardare in qualche modo anche la moneta argentea. I dati raccolti statisticamente sia in aree bizantine sia longobarde sia nei tesori delle monete argenetee e in genere sull'intero stock disponibile di questo metallo dimostrano che esso in età altomedioevale andò rarefacendosi anche in Italia. Diversi studiosi richiamarono questa tematica e Werner e poi Arslan ritenevano che i Franchi durante il dominio in Italia dal 539 al 563 si sarebbe verificato un drenaggio sistematico della moneta argentea verso l'odierna Francia. In effetti nelle tombe merovinge l'abbondana di nominali argentei è nettamente superiore rispetto al panorama coevo della penisola italiana.

Il sussistere nel sistema monetario dell’VII secolo di piccoli nominali d’argento denota
unacerta complessità economica che giustifica la produzione di moneta divisionale a
fianco del tremisse aureo in una fase che, in ambito longobardo, vide probabilmente
uscire di scena la moneta di bronzo tardo romana ancora circolante.


Sul mercato attuale le monete sono assai difficili da reperire e sono pochi i
commercianti che le trattano, ; un denier in conservazione decente costa almeno 200 euro, per i tremissi si parte da 500 euro ma la maggior parte ne costano molto oltre il migliaio.

 

 

 

* Alfons Dopsch - Economia naturale ed economia monetaria - 1930

**
John Porteous - "Monete"

*** Rivista Monete Antiche

**** Alessia Rovelli - Università degli studi della Tuscia, Viterbo